Largo Consumo: Trade Mkt & Sales Circle
Dal calo di alcuni format al sovraffollamento dello scaffale, con la digitalizzazione come tappa obbligata. L’industria attraversa un ripensamento di strutture e processi commerciali.
di Francesca Pautasso e Armando Garosci
Lo scorso 27 Novembre, in live straming, Largo Consumo ha organizzato un forum con il coinvolgimento di docenti universitari ed esperti, trade marketing manager, direttori commerciali e vendite di importanti gruppi industriali italiani. Il momento di confronto, intitolato “Trade mkt & sales circle”, dedicato ai temi dei processi commerciali e del trade marketing per l’industria, è stato di particolare attualità in un momento di radicale trasformazione dello scenario retail e dei consumi, complice anche il calo di alcuni format a vantaggio di altri, come l’uscita di alcune insegne e l’ingresso di nuovi operatori.A ciò si aggiungono il presidio di uno scaffale sempre più affollato, il crescente valore dei dati di Crm e dei processidigitali, con il ripensamento delle strutture e dei processi commerciali. Il forum è stato coordinato da Armando Garosci nel ruolo di animatore e moderatore del dibattito.
IULM: Abilitare la raccolta di dati in store
Secondo Daniela Corsaro, professore associato di Marketing presso l’Università Iulm, studiosa di sales transformation nel trademarketing e direttore de lmaster in International marketing e sales communication, negli ultimi 3 anni si sono verificati alcuni cambiamenti all’interno dei processi di vendita che coesisteranno anche in futuro. Il Covid ha determinato una serie di tendenze solo apparentemente contrastanti: da una parte il ritorno all’acquisto di prossimità, nel tentativo di ricercare una vicinanza sia fisica sia psicologica, dall’altra un boom degli acquisti tramite mobile app e dei pagamenti digitali. La pressione sul prezzo e sulle promozioni è massima, mentre nei consumatori si è sviluppata la ricerca di nuovi valori maggiormente connessi alla collettività, al sociale e all’ambiente. Per le aziende, la chiave di volta per venire a capo di questa trasformazione è lo sviluppo di un approccio relazionale nei processi di trade marketing per favorire un’accelerazione e integrazione dei processi stessi. Di fronte a un eccesso di offerta a scaffale, il consumatore non percepisce la differenza tra prodotti e marchi, per cui assume maggiore rilevanza ciò che il brand fa e non ciò che dichiara. La vendita diventa dunque molto più importante del passato, essendo l’ultimo miglio nella logica relazionale fra azienda e consumatore, l’opportunità di contestualizzare il brand nella sfera reale di chi compra, contribuendone a formare la reputazione stessa in context. L’Università Iulm ha inoltre recentemente svolto uno studio sulla selling sustainability, volto a comprendere quanto nella vendita si trasferiscano i valori su cui tanto i brand e la comunicazione corporate stanno investendo oggi: i benefici che il prodotto porta al territorio e alla comunità locale, l’attenzione ai dipendenti, la tracciabilità della filiera, il riuso. La ricerca evidenzia però che tutto questo patrimonio di valori rischia di perdersi proprio nella comunicazione di vendita. Infatti nel retail, spesso, il sales non è formato adeguatamente: gli e-commerce risultano ancora molto product centered, il Pdv non sempre coglie le opportunità di una comunicazione più immediata e diretta, anche abilitata dagli strumenti digitali, che sembra essere particolarmente apprezzata dalle nuove generazioni. Nel B2B invece la sensibilità delle figure di vendita è maggiore, incontrando tuttavia le resistenze dei buyer che sembrano ancora troppo legati alla logica negoziale spinta sull’aspetto economico. Iulm sta affermando l’importanza delle competenze trasversali del venditore, portando la vendita come tematica sempre più sociologica, umanistica e tecnologica e non solo economica, che tocca aspetti soft come la capacità di mettersi nei panni nell’interlocutore, accanto a temi di misurazione del valore, abilità di prendere decisioni data driven, fino alla gestione di veri e propri contratti relazionali formali, volti alla condivisione di valori e obiettivi e non solo alla tutela dall’opportunismo presunto della controparte. Un altro tema rilevante è l’utilizzo di tecnologie di marketing automation. Sempre secondo un recente studio Iulm, il 40% delle aziende le utilizza per migliorare l’efficienza e personalizzare la comunicazione e la customer experience. Nell’era post Covid si è notato che si investirà di più in marketing automation per il servizio post vendita, ricevere feedback dai clienti e veicolare comunicazioni e promo personalizzate. La pandemia, infine, ci ha aperto gli occhi sull’importanza del tempo e di come lo usiamo. Questo tuttavia non è solo un tema di accelerazione, in quanto la velocità si può raggiungere solo con una struttura integrata di trade marketing alle spalle. Sui data driven, l’industria italiana è, purtroppo, molto indietro rispetto al contesto internazionale, dovendoli ancora comprare da terze parti. È invece fondamentale abilitare la raccolta dati in store, ascoltando il cliente nel punto di vendita e nel contesto in cui il consumatore decide, anche attraverso studi di neuromarketing per capire cosa succeda a livello irrazionale mentre si trova davanti allo scaffale.
GSI: Integrazione e accelerazione dei processi
Andrea Verminetti, direttore vendite Gdo per Grandi salumifici italiani, ha illustrato i cambiamenti che si sono verificati nella sua azienda facente parte del gruppo Bonterre, con 660 milioni di fatturato, più di 1.800 dipendenti e oltre 2.000 referenze.
Secondo Verminetti, integrazione e accelerazione dei processi di trade marketing sono due parole chiave per spiegare ciò che stanno vivendo le aziende italiane. Fino a qualche anno fa, il prodotto che il trade vendeva era lo spazio nei negozi. Si è poi arrivati a parlare, con l’ingresso dell’on line, di canale e punti di contatto. Il trade è diventato quindi un mediatore per raggiungere il consumatore finale che, diventando shopper, determina con le sue scelte il cambiamento della filiera. Il Covid ha contribuito ad accelerare questo processo in maniera rilevante. Un altro segno evidente del cambiamento notato dall’industria e dalla distribuzione è la progressiva perdita di fedeltà alla marca da parte del consumatore e all’insegna da parte dei retailer. Ora il consumatore vuole fidarsi del brand e la fiducia è molto più difficile da conquistare e mantenere rispetto alla fedeltà. Con l’obiettivo di mantenersi al passo con i cambiamenti, Grandi salumifici italiani ha investito molto in termini di risorse per attuare valutazioni ex post sull’efficacia delle azioni promozionali e per mappare in anticipo il Roi e il Pei di tutte le attività delle proprie categorie e di quelle dei competitor. Tuttavia un ostacolo ancora importante per attuare tutto ciò è la difficoltà, per l’industria, nel reperire i dati. Differentemente da quanto accade in Spagna e Uk, in Italia il trade è titubante a condividere dati sensibili, forse per una mancanza di fiducia nei confronti delle aziende. Il terzo problema riguarda il mancato rispetto degli accordi negoziali di execution nel punto di vendita, a causa del peggioramento dell’investimento fatto da tutta la filiera sull’uomo vendita. Negli ultimi anni, i principali tagli sono stati fatti proprio sulle persone a contatto con il consumatore, quando al contrario occorrerebbe investire più risorse per formare queste professionalità.
Fileni: dallo storytelling allo storybeing
Il gruppo Fileni, 450 milioni di fatturato, leader di mercato nelle carni bianche e rosse bio, è un esempio della trasformazione culturale e di metodo nell’ambito del trade marketing, orientata verso la relazione con i clienti e i consumatori. Simone Santini, chief commercial officer, con alle spalle molteplici esperienze nel sales e trade marketing, in ambito nazionale e internazionale, nel mondo della moda, dello sport e del lifestyle, spiega come oggi il consumatore ricerchi un’esperienza di brand più coinvolgente, fondata su una maggiore consapevolezza nella fase di acquisto, scegliendo i marchi nei quali poter riconoscere la stessa scala valoriale.
Occorre avere il consumatore al centro dei piani strategici definiti dalle industrie insieme al trade, raccontando una storia che sia basata sui valori e obiettivi comuni. Secondo Santini, bisogna passare dallo storytelling allo storybeing: i brand che raccontano una storia autentica vincono perché vivono e sono quello che raccontano. Le piattaforme on line sono un esempio di questa tendenza in atto. La digitalizzazione del business, in particolare, ha creato un approccio e un dialogo diretto con il consumatore, proponendogli il prodotto giusto nel contenitore giusto al momento giusto. Questa strategia è vincente non solo nelle piattaforme on line, ma anche quando c’è un approccio omnichannel con il consumatore: l’experience che quest’ultimo vive sul web deve essere la stessa del punto di vendita. È necessario un maggior focus sull’on line e avere una visione più chiara su come cambierà il modello di acquisto nel breve futuro, perché fra qualche anno il web avrà un ruolo ancor più determinante nel grocery. Per orientare i processi commerciali in questa direzione, l’organizzazione Fileni si sta evolvendo proprio per dare massima priorità a una strategia integrata che unisca le vendite con le attività omnichannel e di attivazione in store, con il fine di valorizzare la consumer experience del brand, aumentando la partnership con i clienti più strategici.
Orogel: l’anno zero da cui partire
Maurizio Zappatore, direttore commerciale di Orogel, colosso nel settore dei surgelati, con una produzione totalmente italiana, spiega che componenti come benessere, attenzione alla filiera e servizio al consumatore sono stati messi in campo in azienda già 25 anni fa, riuscendo a valorizzare la produzione anche con spostamenti di posizionamento importanti. Poi è sopraggiunto il Covid che ha sparpagliato le carte in tavola. Nella prima fase della pandemia è ritornata l’attenzione nei confronti dei negozi di prossimità, mentre nella seconda parte la vendita si è concentrata nei discount e sulle medie superfici a parità di consumi, formati di prodotto e distributivi. Orogel ha avuto qualche problema a far combaciare il formato dei prodotti con la parte distributiva, caratterizzata da spazi troppo piccoli destinati ai surgelati e non adeguati alla crescita del consumo. Paradossalmente gli assortimenti sono stati importanti nelle grandi superfici, che per i surgelati
hanno un minor impatto di vendita, e scarsi nell’area della prossimità, dove si registra invece la vendita migliore.
Servirebbe dunque una rivoluzione culturale enorme per far allargare gli spazi. Secondo Zappatore, il 2020 è l’anno zero da cui ripartire. La categoria dei vegetali surgelati con il Covid è stata tra le più performanti in assoluto, con il 12% di crescita e con un’impennata rispettivamente del 184% e 180% nella prima e seconda fase della pandemia per ciò che riguarda l’e-commerce: la sfida sarà ottimizzare l’offerta. Per questo, parlando di sales, bisogna abbandonare il concetto del venditore con la valigetta e il catalogo con listini e prezzi. Per essere vincente, un’azienda deve investire sui propri uomini con una formazione adeguata a un contesto culturale che è cambiato e avanzato. Tutto ciò che è stato costruito nella pandemia potrebbe disperdersi se si tornasse al vecchio schema, perché è evidente che da una parte avremo un trade molto agguerrito e dall’altra un consumatore che avrà fatto tesoro delle esperienze vissute durante il Coronavirus. Negli ultimi anni, Orogel è stata brava a comunicare e a trasferire ai consumatori i propri valori e la sua reputazione, un po’ meno brava a trasmetterli al trade, ancorato ancora al vecchio schema.
Fratelli Beretta: rinnovare i sistemi operativi
Intelligenza artificiale e sistemi di data management per leggere dati, accelerare e ottimizzare i processi commerciali. Ecco su cosa punta il gruppo Fratelli Beretta, azienda famigliare dal 1812, specializzata nella produzione di salumi italiani e prodotti gastronomici, con un fatturato di circa 900 milioni di euro, oltre 2.500 dipendenti, circa 30 siti produttivi, 2 filiali a ciclo completo
in USA, 1 in Cina. Stefano Caponi, trade marketing e store account manager, spiega che l’azienda è nel pieno della sfida per avere una business intelligence già negli applicativi commerciali per la gestione e l’aggiornamento dati e dei Kpi in tempo reale.
Forti tensioni per materie prime e lockdown hanno insegnato che certe decisioni devono essere aggiornate e misurate molto più velocemente di prima. Funzioni vendite e revenue manager devono poter rivedere i budget più volte in pochi mesi, modificando l’uso delle leve commerciali, su più mercati. L’azienda vuole investire per cambiare sistemi operativi commerciali e disporre
anche di strumenti di ottimizzazione, simulazione e stima degli impatti nei piani canale/cliente. Altro obiettivo aziendale è incrementare la quantità di dati a disposizione, utilizzando l’intelligenza artificiale per attingere ed elaborare informazioni da mercato, geografia distributiva, dati insegna e dalla forza vendita di sell-out, arrivando fino alle prestazioni delle supply chain.
Gestire al meglio dati e informazioni aiuta a tenere sotto controllo le discrepanze d’esecuzione degli accordi (assortimenti, promozioni, volantini ed extra display). Non corretta esecuzione e quindi perdita di prestazioni possono incidere sul livello di attività puntuale di un distributore (tranche di calendario promozionale, piano inserimento prodotti) per quasi 10 punti percentuali.
Tra uno scenario positivo e uno negativo, si possono configurare differenziali di crescita tra 2 e 4 punti percentuali annui, che oggi per un cliente chiave sono tantissimi. Le migliori pratiche d’esecuzione talvolta sono recuperabili, ma servono sistemi e dati ben organizzati per confrontarsi immediatamente con il trade.
A volte si può collaborare agendo preventivamente dallo store: l’esecuzione non ottimale può discendere da temi informatici e di comunicazione (codici assortimento bloccati, mancate info ai punti di vendita), o ancora del turnover continuo del personale nello store, che non ha tempo di formarsi o applicarsi in modo adeguato e può essere sostenuto dalle forze vendita di field.
Risorsa: valutare l’efficacia delle promozioni
Domenico Ciasca, esperto di mass market e studioso del tema dei processi e delle logiche commerciali e responsabile alla consulenza di Risorsa, azienda che da 30 anni si affianca all’industria di marca con soluzioni tecnologiche di sales e trade marketing excellence, ha vissuto il trend del mercato precedente il Covid e gli effetti che la pandemia ha avuto sul trade marketing, le vendite e i formati distributivi, osservando come le aziende hanno reagito all’accelerazione dei processi e al cambiamento in atto.
Secondo Ciasca, le prime conseguenze del Covid si sono registrate sulla rete di vendita. Chiaramente un direttore è abituato ad avere i venditori e gli area manager distribuiti sul territorio e un trade marketing localizzato. Con le limitazioni imposte dal Covid, qualcosa ha cominciato a scricchiolare, soprattutto nei casi in cui questi processi non fossero integrati in una struttura tecnologica organizzata di sales e trade marketing excellence. È infatti chiaro che con le limitazioni imposte dalla pandemia e dai diversi lockdown c’è stato un problema sostanziale nella copertura del cosiddetto ultimo miglio della rete di vendita, ovvero le informazioni che l’azienda doveva veicolare ai venditori, ai national account e alla controparte nelle negoziazioni. Nelle organizzazioni di vendita, sistemi tecnologici concreti e collaborativi a supporto del flusso di informazioni del processo commerciale hanno contribuito alla gestione di questa situazione. Un altro tema centrale e dispendioso per le aziende è quello delle promozioni. Secondo Ciasca, oltre alle componenti classiche del Roi e Pei nella valutazione, bisognerebbe spostare il concetto di efficacia in un ambito
molto più pratico. Ovvero quali sono i tempi con cui le promozioni vengono inserite a sistema o vengono negoziate con il trade? Quali sono le qualità dei dati e i volumi stimati e inviati al demand planning o l’accuratezza con cui viene inserito lo sconto? È evidente che un sistema che permette di integrare queste informazioni e best practice, rendendo le decisioni più lineari, è fondamentale per accelerare i processi.
Mutti: non prescindere dal discount
Secondo Marco Bettonte, direttore vendite South Europe di Mutti, azienda familiare con 120 anni di storia, 400 milioni di fatturato a marchio proprio con il pomodoro nel reparto commodity, 300 dipendenti fissi, l’emergenza pandemica ha accelerato processi già in atto da tempo in ambito distributivo: crisi del canale ipermercato, rafforzamento del format super/superstore, il ritorno di interesse sui negozi di vicinato, la crescita del discount.
Quest’ultimo grazie all’elevato numero dei punti di vendita, unito alla loro collocazione in zone molto prossime ai centri abitati, sta dando un forte impulso alla loro crescita in termini di quota: tale trend si è rivelato ancora più forte durante il secondo lockdown. Oggi una marca forte che vuole crescere, per raggiungere il proprio consumatore, non può prescindere da questo canale. In un periodo storico in cui i processi commerciali sono accelerati, occorre che l’azienda abbia anche una visione prospettica all’interno di uno stesso canale, con strategie di comunicazione diverse da insegna a insegna, per veicolare informazioni e valori al consumatore che non siano solo il prezzo.
Per fare questo bisogna conoscere sempre di più il cliente finale, indagando a fondo sui suoi processi decisionali, vedendo come si comporta quando è nel punto di vendita ma anche sul web, un altro canale in continua evoluzione e crescita. Fare questo nel Pdv non è semplice, ma altrettanto difficile è riuscire a veicolare alla distribuzione le evidenze di tale analisi. Sul web la strategia aziendale cambia, in quanto lo spazio fisico non esiste più, sostituito da quello virtuale del sito. Anche in questo caso un’azienda deve chiedersi come possa intercettare il consumatore avendo però, a differenza del negozio fisico, la quasi certezza di un dialogo diretto con lui una volta che avrà stabilito un contatto.
Per ciò che riguarda l’e-commerce, Mutti ha provato ad approcciare Amazon, rendendosi poi conto che quel marketplace non era idoneo per i propri prodotti, ritenendo che almeno per ora quel canale possa essere presidiato attraverso le vendite online dei retailer più evoluti, provando a intensificare il dialogo con loro su questi temi.
Parmareggio: la costruzione di un brand
Parmareggio, azienda nata nel 1984 e acquisita nel 2004 dal gruppo Bonterre, è leader del mercato del Parmigiano Reggiano con un fatturato di 400 milioni di euro e 620.000 forme lavorate all’anno. È anche leader di mercato del burro, con una quota del 12%. Marco Tanzi, direttore vendite Italia, illustra il tema delle supercentrali nell’ambito dei processi negoziali. Durante il primo Covid c’era stato uno slancio dei negozi di prossimità, che ora sono tornati a soffrire, costringendo i piccoli retailer a raggrupparsi in centrali di acquisto per cercare di avere le stesse opportunità dei big. Secondo Tanzi, di fatto si tratta di realtà anomale che aggiungono più strati negoziali alle trattative, facendo rivivere il fenomeno della frammentazione che oggi sta dando grossi problemi ai big. Infatti, laddove c’è un canale di negoziazione lungo, con diversi passaggi di mano, diventa poi difficile applicare nella realtà ciò che era stato concordato nelle sedi opportune.
Il Covid ha creato problemi anche con i piani promozionali. Soprattutto le chiusure legate al primo lockdown hanno creato inflazione, per cui le promozioni sostanzialmente non venivano fatte, anche se Parmareggio aveva messo in conto che sarebbe potuto accadere. L’azienda, tuttavia, ha avuto ugualmente ottime performance grazie anche alla gamma variegata di prodotti innovativi e di eccellenza, che le hanno permesso di costruire un vero e proprio brand nel corso del tempo. Secondo Tanzi, tale leadership dovrà essere mantenuta anche in futuro, soprattutto per contrastare l’avanzata della marca privata, che sempre durante il Covid è cresciuta molto, in virtù delle altre categorie di prodotto messe sotto stress dai consumi. In futuro l’assortimento sugli scaffali delle superfici medio-piccole sarà ancora più segmentato con il primo prezzo, la marca privata e il leader, che dovrà essere bravo a restare tale per non uscire dal mercato.
Montenegro: come formare il venditore moderno
Gianluca Monaco, direttore trade marketing e new business spirit di Montenegro, azienda con 260 milioni di euro di fatturato fra food e beverage, con marchi storici nel fuori casa come Amaro Montenegro e Vecchia Romagna, sta notando solo deboli miglioramenti nella negoziazione con il trade moderno. Purtroppo, spesso prevalgono ancora aspetti meramente quantitativi (sconti, contributi) a scapito di quelli qualitativi che, invece, dovrebbero acquisire sempre più rilevanza perché maggiormente orientati allo sviluppo di un valore comune verso il consumatore/shopper. Per favorire un approccio negoziale e commerciale sempre più qualitativo, l’azienda è molto attenta alla formazione dei propri venditori, professionisti in grado di raccontare la storia, i valori del brand e le sue attività a 360°, attraverso selling proposition efficaci e supportate da contenuti, digitali e non, di ottimo livello. All’interno di questa dinamica, è fondamentale evidenziare come per gli spirit la ricorrenza in Gdo giochi un ruolo fondamentale per le sorti annuali del business e che, proprio in relazione alle opportunità di sell out di questi periodi, qui si concentrino i maggiori sforzi negoziali. Il Gruppo Montenegro, avendo brand in portafoglio con una grande vocazione all’horeca, ha anche nel canale C&C un interlocutore chiave. Per la loro natura, in queste strutture troviamo mediamente una conoscenza delle categorie e delle dinamiche del fuori casa più sviluppate. Un esempio virtuoso è rappresentato da Metro, cliente che ha nell’ampiezza e profondità ssortimentali alcuni tra i suoi principali punti di forza e distintività e che, quindi, è sempre aperto nel recepire le novità di prodotto che derivano dallo sviluppo dei brand nell’away from home. Segnali interessanti sembrano arrivare anche dall’e-commerce, con piattaforme specializzate come Winelivery, Tannico e Vino ’75 e con i generalisti come Amazon. Per la gestione di quest’ultimo, Montenegro ha deciso nel 2020 di appoggiarsi a un’agenzia in outsourcing per favorire una collaborazione con il cliente più efficace ed efficiente, volta a massimizzare il ritorno degli investimenti e garantire una migliore capacità di cogliere le opportunità di crescita del business. Il rapporto con Amazon e con tutto il canale on line è, per Montenegro, una case history di successo che le farà chiudere il 2020 con più 1 milione di euro di fatturato, triplicando i valori del 2019.
Zonin 1821: la GDO diventa enoteca
Giacomo di Feo, direttore vendite Italia di Zonin 1821, azienda con 210 milioni di euro di fatturato, 50 milioni di bottiglie prodotte all’anno e leader di mercato nel segmento del prosecco, fa il punto sull’andamento della categoria nella Gdo a un passo dai festeggiamenti del 2021 per i 200 anni dalla fondazione.
Zonin ha compensato l’onda negativa del Covid sull’horeca potenziando il canale moderno. Il vino infatti vive la complicanza, essendo un mercato infedele per antonomasia, della poca affezione alla marca da parte del consumatore, che vuole assaggiare prodotti sempre diversi. Per via delle difficoltà a ritagliarsi degli spazi di degustazione individuale, l’azienda ha creato un nuovo format, Mister vino, in cui un merchandiser poteva vendere non solo i prodotti Zonin ma anche tutti quelli dei competitor. Questa operazione ha portato ottimi riscontri benché si tratti di un progetto impegnativo: per vendere il vino ci vogliono professionisti preparati. Di Feo spiega che in azienda stanno lavorando ad altri progetti dedicati alla Gdo, un canale che sta assumendo sempre più la connotazione di un’enoteca, dove gli incrementi di riconoscibilità sono stati importanti perché i buyer hanno visto in Zonin la figura di un partner e non quella di un semplice fornitore di vini. Soddisfazioni stanno arrivando anche dall’e-commerce, una vetrina importante, dove Zonin ha lavorato per defocalizzare gli accordi commerciali dagli aspetti promozionali che riguardano il prezzo, allargando il discorso anche su attività di natura esperienziale, proponendo in abbinamento all’acquisto di vino anche degustazioni e visite guidate nelle tenute agricole del gruppo.
Nostromo: metodo zaizen per standardizzare i processi
Francesca Ganassi, trade marketing manager di Nostromo, divisione europea del gruppo spagnolo Calvo, con 180 milioni di fatturato e 250 referenze, spiega che il dipartimento di trade marketing in azienda è stato inaugurato circa 7 mesi fa in staff al direttore marketing Europa. La scelta è stata compiuta nell’ottica di creare un ponte fra vendite e marketing, per far capire alle vendite il valore di tutti i prodotti e progetti che nascono in azienda. Questa separazione dei dipartimenti è stata vincente, in quanto spesso il trade marketing è dipendente dal settore vendite e rischia di essere un semplice strumento di servizio o di supporto alle vendite stesse, senza un proprio valore e funzione intrinseca.
Per ciò che riguarda invece i processi commerciali, il gruppo Calvo utilizza la metodologia Kaizen, che si basa sulla standardizzazione dei processi e sull’efficienza produttiva traslate su tutta la filiera decisionale. Ogni processo di vendita, trade e marketing deve sottostare a determinati parametri di marginalità, Roi e Pei, per poi tirare le fila di ciò che è stato realizzato con una valutazione ex post. Anche in Nostromo resta ancora da risolvere un problema tipico italiano, ovvero quello della mancanza di condivisione dei dati di sell out da parte delle insegne.
L’azienda non dispone di software di simulazione o previsione, facendo riferimento alle banche dati del mercato di Iri e a tradizionali fogli di Excel per verificare in tempo reale se le promozioni e i prezzi sono coerenti con la leva del marketing mix.
Lattebusche: precursori del KM zero
Qualità e innovazione dalle materie prime al prodotto finito e un approccio relazionale su cui puntare, non solo con i collaboratori, ma anche con il trade marketing. Questi sono i capisaldi che hanno guidato le strategie e i processi commerciali di Lattebusche, l’azienda nata a Belluno nel 1954, con 6 stabilimenti produttivi, un fatturato di 112 milioni di euro, 300 dipendenti e 360 soci conferitori del latte. Questo modus operandi, secondo Antonello Santi, direttore vendite, ha consentito all’azienda veneta di fare della cultura della comunicazione una leva importante per instaurare nel corso degli anni molti rapporti proficui con le insegne. Lattebusche infatti invita periodicamente le aziende all’interno della propria struttura per raccontare e far vedere di persona la realtà produttiva e i valori fondamentali.
Un’altra chiave del successo di Lattebusche è il fatto di poter contare su una gamma diversificata, ampia e profonda di prodotti che vanno dal latte fresco, ai freschi, freschissimi, semistagionati e stagionati e al gelato con 4 formaggi Dop (Asiago, Montasio, Piave e Grana), presenti in 3.500 punti di vendita in Veneto e in 10.000 in Italia. La cultura commerciale ha avuto un’evoluzione nel corso degli anni con la creazione di account, figure ad hoc per dialogare con la distribuzione moderna. Lavorare solo latte locale ha poi consentito a Lattebusche di diventare già dal 1954 precursore della cultura del famoso chilometro zero. Il gruppo veneto è stato fra i primi a produrre in loco gelato di latte fresco senza grassi idrogenati, conservanti e coloranti, nonché prodotti e latte bio di montagna. Il Covid ha rallentato i processi, ma per il futuro Lattebusche conta di riprendere le attività in store (con una media di 1.000 giornate all’anno) con assaggi, degustazioni e cooking show dal vivo per proporre ricette a base di formaggio Piave. Fra le novità in arrivo, anche la messa a punto di strumenti innovativi per monitorare le promozioni.
Fabbri 1905: focus sulla visibilità a scaffale
Emilio Omenetto, business unit director modern trade di Fabbri 1905, azienda familiare da 4 generazioni, nata come distilleria e conosciuta poi da tutti grazie a un prodotto iconico come Amarena Fabbri, racconta le sfide della sua azienda alla luce dei cambiamenti dei formati distributivi, che dopo il Covid hanno subito un’accelerazione. Il gruppo, con 165 dipendenti e 2 sedi produttive nel bolognese e in Argentina, opera principalmente nel fuori casa e in mercati di nicchia, sempre con una posizione di leadership e prodotti di alta qualità. Per questo motivo subisce una pressione promozionale inferiore a quella di altre categorie di massa, ma l’argomento prezzi è comunque molto sentito perché il trade fa della competitività un tema trasversale a tutte le categorie e a tutti i prodotti. Con il cambiamento in atto nella grande distribuzione e la crisi degli ipermercati, l’ibridazione dei formati e la crescita dei discount, un punto fondamentale è la distribuzione reale e percepita, ovvero la visibilità. La collocazione dei prodotti Fabbri 1905 all’interno delle diverse categorie merceologiche non è sempre univoca da parte delle insegne della Gdo. La visibilità nei confronti del consumatore è quindi un fattore critico di successo. Per questo l’azienda ha lavorato molto sul presidio del punto di vendita, con una struttura interna dedicata proprio a questo scopo. Gli agenti, che fanno anche attività di presidio, arrivano a compiere anche 1.200 visite al mese su tutto il territorio. Un altro tema caldo è la presenza, per prodotti di nicchia come quelli di Fabbri 1905, proprio nello stesso discount, che fa del private label un elemento fondamentale per veicolare convenienza, mettendo attenzione a non sovradimensionare la marca industriale. Un portafoglio prodotti ampio e di alta qualità ha consentito tuttavia all’azienda di approcciare anche questo canale, in modo selettivo e coerente con il proprio posizionamento.
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